
Scritta e pubblicata qui da Giovanni Angioni.
Gent.mo Onorevole Presidente Napolitano,
Questa volta, e mi permetta di prendermi tutta la presunzione che ci vuole per dirlo, Lei si è sbagliato.
Nel Suo discorso alla Nazione che ho trovato disponibile sul sito della Presidenza, Lei ha parlato di interrogativi sul futuro, di problemi e di sforzi necessari per salvare il Paese da un baratro che, apparentemente e fortunatamente per Lei, dimostra di non conoscere a pieno.
Riprendendo come spunto un piccolo j’accuse che ho lanciato mesi fa dalle colonne – poco lette a dire la verità – del mio blog su La Stampa, questa mattina sono arrivato in ufficio con la precisa intenzione di raccontarLe una storia un po’ più precisa delle Sue onorevoli parole. Una storia vera e che conosco quasi a memoria perché continuo a costruirla giorno dopo giorno con le mie mani in un luogo che con l’Italia ha davvero poco a che vedere.
E, mi permetta di precisarlo, non si tratta della storia di una persona partita svantaggiata e che non è riuscita a farcela: è il racconto di un figlio dell’alta borghesia italiana che proprio sfruttando il suo bagaglio culturale, le sue capacità e la possibilità economica di scappare ha deciso di investire nel proprio futuro con un biglietto di sola andata per uno degli stati dell’Unione Europea più lontani dal nostro.
Ho lasciato l’Italia per la prima volta nel 2004 ed ho finito per trasferirmi stabilmente in Estonia nel 2006 quando, crisi economica lontana mille miglia, ho pensato di aver trovato una società adatta a quello che cercavo: meritocratica e dinamica.
In quattro anni di Estonia, con le mie tasse, ho ottenuto una quantità tale di servizi che mi hanno fatto scoprire una dimensione completamente diversa della vita, facile perfino – se mi permette di sprecare così questo orribile aggettivo.
In quattro anni di Estonia – e senza parlare una parola di estone ma con un inglese che, nonostante le lamentele della mia stimatissima settantenne professoressa all’università, è semplicemente perfetto – sono riuscito a realizzare uno dopo l’altro i miei sogni scoprendo che esistono dei luoghi nei quali essere giovani non è una colpa. È un vantaggio.
Accolto a braccia aperte al Ministero dell’Istruzione ho avuto subito carta bianca per realizzare ciò che pensavo fosse utile solo sulla base del mio curriculum. Nessun concorso né cognome ad aiutarmi.
Provata la mia serietà – come giornalista almeno –, passo dopo passo mi sono conquistato da solo quello che pensavo di poter raggiungere e per il quale ho fatto l’unica cosa possibile Signor Presidente, ho lavorato.
Nessuna lobby, nessun contatto, nessuno sponsor: ho dimostrato di saper fare qualcosa e questo è bastato a farmi avere ciò che persone molto più brillanti di me non sono riuscite nemmeno a sfiorare per la sola colpa di essere rimasti in Italia.
Persi tra concorsi allucinanti – la mia tesi universitaria sulla riforma del sistema universitario e basata sui migliori punti di sei sistemi già esistenti, chissà come mai, venne rifiutata … imponeva al personale accademico di lavorare… – e tra figli di che in genere rosicchiano percentuali impressionanti delle risorse disponibili, ho visto persone meravigliose rinunciare a vivere, rinunciare a sognare. Per provare a convincersi che avere la possibilità di rispondere al telefono di Sky li rende speciali. Fortunati, Signor Presidente.
Persone cresciute nell’idea che una laurea ed un dottorato potessero essere la via d’accesso più facile per realizzarsi e che ora si trovano nella melma del disastro che la flexicurity economica – flessibilità e sicurezza – crea quando ci si dimentica di garantire la security sociale.
Quattro anni lontano dall’Italia, Egregio Signor Presidente, mi hanno insegnato tanto e mi hanno fatto aprire gli occhi verso un mondo che, visto da così lontano, mi sembra più vicino ad una commedia di Alfred Jarry che ad un Paese dell’Unione Europea nel 2010.
L’Italia che vede Lei con i Suoi occhi, non me ne voglia Signor Presidente, è un’Italia che non esiste. Un Italia nella quale chi ruba ha la possibilità di salvarsi e chi getta fango su qualsivoglia cosa non rischia mai nulla.
Mi piacerebbe invitarLa un giorno a tornare con me in Sardegna, Signor Presidente, e vedere l’Italia che Lei ha contribuito a creare con il Suo glorioso passato senza lo schermo del vetro di un auto blu perchè, a quel punto, sono sicuro Lei proverebbe la mia stessa vergogna.
Vergogna nell’avere il solito manipolo di folkloristiche prostitute nella strada tra l’aereoporto e la mia città, vergogna per sentire dei funzionari pubblici chiedere il permesso di soggiorno a cittadini dell’Unione Europea, vergogna per aver perfino perso la mia identità – è così Signor Presidente, firmando questa lettera con il mio nome credo di commettere reato – solo perchè un maestro anagrafico si è dimostrato in grado di sbagliare sia il nome di mia madre che quello di mio padre nel momento in cui è stato costretto a venire a contatto con la mia esistenza.
Vergogna perché il sistema che abbiamo tutti contribuito a costruire nel nostro Paese mi constringerà a continuare la mia esistenza all’estero, a costruire una famiglia all’estero e – spero comunque non troppo presto – a portare i miei figli in vacanza per mangiare spaghetti buoni e visitare i nonni.
Perchè è questo che siamo, Signor Presidente.
Un Paese per nonni che non ha paura di darlo a vedere. Un Paese nel quale un giovane su tre non ha lavoro e, sarà la disperazione?, nessuno si ferma a pensare perché.
Lei, Onorevole Signor Presidente, oggi ci chiede di celebrare la Repubblica Italiana, di sforzarci e di sperare.
Io, per quanto piccolo ed insignificante, oggi dico che Lei ha sbagliato. Perchè l’unico modo per celebrare gli italiani è guardarli negli occhi e chiedere scusa.
Cordialmente,
Giovanni Angioni
semplicemente bravo!!!!!!!!!!
Quasi da lacrime!!! tutto vero.
perfettamente d’accordo, bravo!!!!!!!
La lettera è stata pubblicata su La Stampa.
A questo link (e qui sotto) il commento del direttore Mario Calabresi.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/Editoriali/commenti.asp?page=2&ID_blog=273&ID_articolo=284&ID_sezione=627&sezione=
Non si chieda a chi combatte di alzare bandiera bianca
Non riesco a capire la sua lettera, mi sforzo ma proprio non ci riesco. Apprezzo molto le persone come lei che hanno il coraggio di seguire passioni e sogni e non si lamentano se per realizzarsi devono andare dall’altra parte del mondo o del continente. Viviamo in un villaggio globale e sono orgoglioso degli italiani cittadini del mondo. Poi però nella sua lettera non c’è la soddisfazione per quello che è riuscito a realizzare ma la rabbia per essersene dovuto andare. E la indirizza al presidente della Repubblica, che nel panorama attuale è uno dei pochi che pare preoccuparsi di dare una scossa al Paese e di parlare di giovani.
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi negli occhi e ci chieda scusa? Poi staremmo meglio? O forse abbiamo bisogno di essere ancora capaci di indignarci, di risvegliarci e fare la nostra parte: pagare le tasse, chiedere la ricevuta al dentista o all’idraulico, pretendere servizi decenti, non cercare di fregare chi è in coda o in graduatoria davanti a noi, non accettare o non chiedere raccomandazioni e «aiutini», provare a dare una mano, inventarsi qualcosa per far camminare il pezzetto di Paese che occupiamo. Chi sta fuori e ha successo ha stima e rispetto, ma non può permettersi di chiedere a chi sta dentro e combatte di alzare bandiera bianca. Io preferisco sforzarmi e sperare.
Qui la risposta di Giovanni
http://www.facebook.com/notes/giovanni-angioni/in-risposta-al-commento-del-direttore-della-stampa-mario-calabresi-alla-mia-lett/397486367333
In risposta al commento del direttore della Stampa Mario Calabresi alla mia lettera a Napolitano
Visto che il direttore della Stampa Mario Calabresi ha scelto di non pubblicare numerosi commenti alla sua risposta alla lettera a Napolitano che ho pubblicato ieri su Facebook e che in qualche modo è finita su La Stampa di oggi, faccio come posso.
Rispondo qui.
Calabresi dice: “Viviamo in un villaggio globale e sono orgoglioso degli italiani cittadini del mondo. Poi però nella sua lettera non c’è la soddisfazione per quello che è riuscito a realizzare ma la rabbia per essersene dovuto andare”
Ci può giurare, signor direttore.
Nella mia lettera c’è tutta la rabbia di una persona che le cose che ha realizzato, avrebbe volute farle in casa propria, non a migliaia di chilometri di distanza.
Un paese che costringe giovani a scappare per trovare altrove un modo per sfruttare la laurea che hanno in tasca e non usarla come sotto tazza mentre al telefono vendono l’ennesimo contratto, non è un paese del quale andare fieri né per il quale valga la pena lottare. Questo sono pronto a ripeterlo all’infinito.
La speranza e la lotta alla quale invita lei nella sua risposta un po’ sorniona – mi permetta di prendermi questa confidenza, gentilissimo signor direttore, non possono venire sempre e comunque solo da noi. Solo da chi non vuole piegare la schiena davanti ad un sistema che apre le porte giuste solo dopo i favori giusti fatti alle persone giuste.
La speranza e la lotta sono responsabilità della classe politica e di chi fa opinione pubblica – sì, signor direttore, anche sua – perchè è solo convincendoci che lottando si possa ottenere qualcosa per davvero che riuscirete a trasformarci in milioni di potentissimi don Chichotte.
Di cosa parlo, signor Direttore?
Mi permetta di spiegarglielo con esempi concreti.
Non tocco la prossima legge finanziaria – ho sempre sognato di fare politica ma, ritenendo idiota spendere migliaia di euro in pubblicità per competere con gli altri candidati; un politico non lo sarò mai e dunque questo non è il mio campo.
Però scrivo.
E leggo il suo giornale signor direttore. Tutti I giorni.
Pensi, signor direttore, conservo ancora con gelosia le copie cartacee con i miei articoli pubblicati. Ovviamente dall’Estonia, signor direttore. Perchè in Italia sarei stato un tirocinante non pagato e da fotocopie.
Lei ci chiede di lottare, signor direttore.
Ma lei, in tutto questo, cosa fa? Quale responsabilità si prende?
La Stampa di oggi, come probabilmente quella di domani, ci butta davanti un po’ di politica, di Israele e di fanciulle poco vestite secondo la solita politica editoriale comune a molti giornali del confondere le acque.
Dove sono le storie di chi lotta, signor direttore?
Dove i giovani disoccupati che a trentacinque anni hanno finalmente capito che risparmiando 200€ all’anno non avranno mai una casa propria?
Dove le centinaia di persone che da ieri mi scrivono per raccontarmi storie che continuano a gelarmi il sangue per la loro tristezza?
Lei dice, signor direttore che dovremmo ”pagare le tasse, chiedere la ricevuta al dentista o all’idraulico, pretendere servizi decenti, non cercare di fregare chi è in coda o in graduatoria davanti a noi, non accettare o non chiedere raccomandazioni e «aiutini», provare a dare una mano, inventarsi qualcosa per far camminare il pezzetto di Paese che occupiamo” e dimostra, così, di non aver chiaro il punto principale della mia lettera. Della mia rabbia.
Quello che forse lei non sa, gent.mo signor direttore, è infatti che esistono in Italia migliaia e migliaia di giovani che fanno ciò che lei chiede senza trovarlo minimamente straordinario perchè lo trovano insito nel loro essere cittadini.
E sono proprio queste persone, oggi, ad essere stanche, non le altre. Le altre stanno benissimo.
È proprio chi fa ciò che lei propone a non avere più chiaro per cosa lottare.
Per lottare e sperare, caro signor Direttore, servono prospettive.
È in grado, lei, di darci una mano a trovarle?
Lei mi chiede di non invitare i miei coetanei ad arrendersi e preferisce lottare e sperare: posso chiederle soltanto come e per cosa?